“Luoghi geografici” nei dipinti di John Sutherland, la mappa dell'interiore
Il viaggio e la sua valenza antropologica: gli itinerari iniziatici dell’incremento del Sè. I luoghi “di” e “in” John Sutherland sono i luoghi della memoria e dell’anima, i luoghi del reale e dell’immaginario: sono luoghi geografici, certo, ma rimandano in quanto multiformi e plurivalenti emblemi figurali ad un significato (o ad una molteplicità di significati) che vive al di là della contingenza delimitante dello spazio cui si allude, producendo nel fruitore più vaste risonanze simboliche ed emozionali.
La maestria cromatica e compositiva del fondatore del Neogestualismo esistenziale determina la magia di un accenno lieve, eppure efficace alla coordinata spaziale propria delle molte opere sutherlandiane in cui è tematizzato per l’appunto il fascino del “lontano” nelle forme precipue di un’evocata distanza geografica (e, come si sa, il “lontano” sia in senso temporale (in specie la dimensione del passato) che geografico, per l’immaginazione che esso suscita nell’essere umano, è – come afferma Leopardi nel suo “Zibaldone” – “poeticissimo”, e – potremmo aggiunger noi – chiarificatore del Sé individuale in un percorso che dal presente dell’“hic et nunc” ci conduca in un altrove e in un’altra, seppur soltanto in senso figurato, dimensione temporale). Lo spazio in John Sutherland è fatto vibrare, ha una sua forza incisiva e sognante, è tanto vissuto dall’artista da non poter esser poi non vissuta dall’osservatore, che inevitabilmente ne resta coinvolto. Ma lo spazio sutherlandiano, si potrebbe dire, ha una valenza, ancor più che emozionale o puramente immaginativa, di tipo esistenziale-antropologico, nel senso che vi è sotteso il “viaggio” (reale o “semplicemente” soltanto fantasticato) che l’artista ha di necessità effettuato, e il viaggio è condotto sì “in” o piuttosto “verso” un luogo (viaggiare presuppone sempre un “andare verso”, una direzionalità, un dirigersi, un “andare incontro a”, una meta da raggiungere e che è insita, forse, nel percorso stesso), ma è ad un tempo realizzato in se stessi o, nella fattispecie, nell’interiorità dell’artista dall’artista stesso. E questo viaggio, questo “itinerarium” ha valenza, si diceva, “antropologica” perché è esso stesso, metaforicamente e nella sostanza, sempre e necessariamente il “viaggio della e nella vita”, ha significato archetipico e primigenio: è un viaggio di avanzamento, di iniziazione (dal latino, “in-ire”: ritorna l’idea dell’“andare” e, quindi, del “procedere”, del “progredire”), di scoperta. Antropologicamente, il viaggio si fa “struttura” (il riferimento, come ovvio, è alla “scuola strutturalista” francese) di un rituale che rimonta ai confini estremi del passato dell’umanità, ossia dell’iniziazione (o simbolica “discesa negli inferi”) che, conducendoci da un luogo A ad un luogo B (nella Grecia antica, dallo spazio civilizzato della polis all’incolta “escathià”, confine estremo della città stessa), produce un incremento interiore, una crescita, una “maturazione” da uno stadio A ad uno stadio B, ossia A + n (e si veda, al proposito, la suggestiva analisi del Van Gennep, che per primo studiò a fondo i rituali iniziatici greci, peraltro confrontandoli con talune forme simili afferenti al panorama antropologico africano, e rintracciandovi lo schema dell’“inversione simmetrica”, secondo cui è necessario vivere il “negativo” che si intende superare). Scendere ne “L’Africa di Emilio”(acrilico su carta bristol, cm.70 x 100), come emblematicamente s’intitola un’opera sutherlandiana, significa allora in questa prospettiva, sì scendere nel cuore pulsante di un continente per di più osservato attraverso gli “occhiali” kantiani di uno scrittore eccellente quale Emilio Salgari, ma più ancora significa penetrare nel mistero della terra, del senso stesso dell’esistenza sulla Terra, ed anche intuire la magmatica forza di una regione primigenia (resa peraltro con splendide tonalità brune) che assurge, nella sua primitiva e sconvolgente bellezza, a simbolo della potenza dell’elemento cosmico con cui pare ancora possibile, per l’uomo, un confronto diretto alla maniera, direbbe il Leopardi della prima fase, degli “antichi”. Allo stesso modo, trasportarsi d’incanto nel “Villaggio giapponese” (acrilico su carta bristol, cm. 100 x 70) vale, nei fatti, precipitare piacevolmente e “naufragare” in alcune tinte inusuali e forti (si tratta, tra le altre cromie, di verdi smeraldo e di bianchi accecanti che singolarmente si intrecciano in una sintesi perfetta) in cui non puoi non avvertire la “turbativa” – in senso positivo – di un viaggio in terra orientale che da contingenza immanente diviene sublime rito iniziatico extra-temporale condotte nell’a-spazialità di un Altrove che consente la maturazione dell’anima mediante l’antidoto di un’Alterità rispetto alle proprie coordinate di usuale esistenza. Ed anche un’opera come “Ricordo di Gerusalemme”(acrilico su masonite, cm.76 x 64) con la sua memoria di una terra lontana e vitale, seppur evocata come mesta mediante tonalità caratterizzate da un’intensa e vibrante mancanza di vivacità (vi si legge una pensosità nei toni di un ocra perfettamente “rammemorante” dell’atmosfera reale della città), si inscrive bene nella dinamica interpretativa generale che è stata fin qui presentata del viaggio come iniziazione, con il suo spessore ulteriore e ulteriormente poetico della “ricordanza” (in termini ancora una volta leopardiani). Evocazione di un mondo distante e altro, il “luogo” sutherlandiano è per l’appunto un luogo, si diceva all’inizio, “della memoria” (una memoria, come è ovvio, personale, ma passibile di universalizzazione), ma anche “dell’anima” (secondo una formula consueta e abusata che però è estremamente funzionale per l’arte del Nostro, nel senso che lo spazio cui si accenna è in perfetta consonanza, di volta in volta, con le vibrazioni interiori dell’artista, alla maniera, mettiamo, di un Petrarca post-moderno). Ed è un luogo dell’anima anche perché le risonanze profonde che produce nel fruitore sono date dall’intuizione pittorica di spazi sì reali, ma rivestiti, come s’è detto, della natura di simboli mai facili da penetrare, ma sempre carichi di una vigoria trascinante: e questo è evidente tanto nella visione luminosa e baluginosa degli “Acquitrini del Comacchio” (acrilico su tela, cm.100 x 70) – un incanto di trasparenze sottili e fortemente evocatrici – quanto nella dipintura non-gestuale di un “Paesaggio foriano”, tanto nella discesa nel “cuore” pulsante, come ebbe a dire Domenico Rea, del capoluogo campano “Napoli: la Pignasecca”(acrilico su masonite, cm.70 x 74), acrilico su masonite), quanto nella magia cromatica di un paesaggio incontaminato e vitale in cui allegri volatili dialogano serratamene tra loro “Conversazione nella foresta tropicale”, (acrilico su tela, cm.70 x 100). Nella zona immediatamente iniziale, quasi un segmento prefatorio o, se si vuole, una breve “ouverture”, del suo “Viaggio al termine della notte”, Louis-Ferdinand Cèline nella sua prosa densa e suggestiva scrive: “Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. (…) E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita”. Ecco, credo che sia in quest’accezione ampia e profonda del “viaggio” così come lo percepisce Cèline, che vada intesa l’area pittorica sutherlandiana dedicata alla dimensione dello spazio/viaggio e del viaggio/iniziazione: l’“itinerarium” sutherlandiano (che è dell’anima: “itinerarium mentis”) o, se si preferisce, l’“agoghè” compiuta dall’artista e poi da lui a noi trasmessa in forme visibili (il termine “agoghè”, dal greco “àgo”, “condurre”, si riferisce propriamente al percorso (iniziatico) dei giovani spartiati) consiste, direi, in un viaggio interamente esistenziale, mediante cui si mette in gioco la propria sensibilità e la propria “Weltanschauung” (visione del mondo) e si attua un “incremento” delle proprie capacità cognitive. Lo spazio è, dunque, per Sutherland, il luogo della crescita del Sé, della maturazione, del compimento, della realizzazione; finanche mappa dell’interiore, estrinsecazione suprema del fascino. Dell’itinerario esistenziale. Sullo stesso tema vedi anche: “Autunno sul pianoro”(acrilico su tela, cm.100 x 70); “Colori di Malta” (acrilico su carta, cm.70 x 100); “Gocce di Napoli” (tecnica mista su cartoncino, cm.70 x 50); “Immagini di Nara” (acrilico su masonite, cm.70,5 x 76); “Le bocche di Bonifacio”,.(acrilico su tela, cm.70 x 50); “Sogno d’Africa”(olio su tela, cm.100 x 70). (Massimo Colella, quotidiano “Il Golfo”del 5 novembre 2009, pag.8 Inserto Arte )
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