Le invasioni barbaresche a Ischia: più di mille anni di terrore |
Ricerche Storiche D'Ambra - Ricerche Storiche | |||
Scritto da Isabella Marino | |||
Martedì 03 Gennaio 2006 19:46 | |||
Le invasioni barbaresche a Ischia: più di mille anni di terrore Una lunga serie di tragici attacchi che portarono morti e devastazioni. L’estate dell’812 e la lettera del Papa a Carlo Magno. E nel 1544 migliaia di prigionieri ischitani venduti come schiavi tra Algeri e Costantinopoli nel nome di Barbarossa. Una storia che ha lasciato tracce profonde su tutte le rive del Mediterraneo. E nella memoria collettiva della gente d’Ischia E della ricostruzione di quei secoli di terrore si è incaricato personalmente Nino d’Ambra, che ha ripercorso le tappe salienti del conflittuale rapporto tra gli ischitani e i “turchi”, dando spazio alle coinvolgenti testimonianze dei contemporanei. Che sono state il leit-motiv dell’incontro, com’è una costante negli appuntamenti promossi dal centro culturale di Forio. E’ partito da lontano, Nino d’Ambra. Addirittura dal sesto secolo dopo Cristo. Dalle origini, cioè, di quelle scorrerie che avrebbero costretto gli ischitani, nel corso dei secoli, a vivere nella paura e a fare appello a tutta la loro astuzia, per limitare al minimo le conseguenze drammatiche degli eventi di cui erano vittime. Eventi che si verificano con regolare frequenza, durante la bella stagione. Loro arrivavano all’improvviso dal mare, quasi sempre favoriti dal buio della notte. Sbarcavano numerosi e mettevano a ferro e fuoco i centri abitati che incontravano sulla loro strada. L’obiettivo di quelle spedizioni era di impadronirsi di bestiame e di prodotti agricoli. E di fare prigionieri, quanti più possibile, da vendere come schiavi nei numerosi mercati nordafricani. Non c’era scampo per chi si opponeva o tentava di farlo. Case e botteghe erano distrutte e depredate. Con perdite enormi, soprattutto di vite umane, nelle contrade dell’isola di volta in volta oggetto degli assalti. Anche se il territorio di Forio, che più si prestava per le sue caratteristiche a quelle incursioni, era il più frequentemente colpito. Tra tante tragedie ricorrenti, di una in particolare si occuparono le cronache del tempo. Non a caso, perché nessuna era stata tanto terribile fino ad allora. Era l’agosto dell’anno 812 quando i saraceni, dopo aver saccheggiato diversi centri costieri della Sicilia e l’isola di Ponza, decisero di dirigere la flotta verso Ischia. Sbarcarono di notte a Citara e avanzarono velocemente, prendendo di sorpresa gli isolani e stroncando ogni tentativo di resistenza, non appena si manifestava. In pochi giorni riuscirono ad occupare gran parte dell’isola, dove si stanziarono, decisi a trascorrervi il resto dell’estate. Per settimane la popolazione fu soggetta ad ogni genere di soprusi e violenze, mentre le terre e i centri abitati venivano sistematicamente depredati, prima che i saraceni decidessero di abbandonare l’isola. Ma non se ne andarono da soli. Sulle navi furono caricati centinaia di ischitani, uomini, donne e bambini, che potevano far fare ottimi affari nei mercati di schiavi, da Tunisi ad Algeri. La tragedia che aveva colpito Ischia dovette apparire anche all’epoca di tali dimensioni, da spingere il papa, Leone III, a descriverla in una lettera inviata all’imperatore Carlo Magno, con l’invito ad un “intervento umanitario”, come lo definiremmo oggi, in difesa dei poveri ischitani. Un eccezionale documento storico, quella epistola papale, letta al pubblico dell’incontro in casa d’Ambra dal giovane Massimo Colella. E non solo per il suo contenuto o per l’illustre destinatario, ma perché quello è il primo documento scritto in cui compare il nome di Ischia. Comunque, la situazione non cambiò negli anni successivi. L’isola continuava ad essere presa di mira dai saraceni, che continuavano indisturbati le loro violente incursioni. E fu così fino al XVI secolo. Quando cambiarono i protagonisti delle scorribande che gettavano nel terrore di rapimenti e uccisioni gli ischitani. Ai saraceni, infatti, si sostituirono i pirati turchi e nordafricani, non meno temibili dei loro predecessori. Fu intorno alla metà del XVI secolo che a gettare nel panico le popolazioni dell’isola, come le altre dei paesi rivieraschi del Mare Nostrum, fu la flotta di un condottiero il cui nome divenne presto famoso anche in Europa. Si chiamava Kair-ed- Din, era nato a Lesbo, era governatore di Tunisi e poteva contare su una flotta sulla quale erano imbarcati 14mila armati. Ben presto non ci fu un angolo nel Mediterraneo in cui il nome di Barbarossa non provocasse il terrore. A Ischia impararono a conoscerlo nel 1544. Fu nella notte del 22 giugno che 150 imbarcazioni “turche” gettarono l’ancora al largo della Scannella. Con un’abile manovra, gli armati sbarcarono su vari lidi dell’isola, dai Maronti a Citara. Gli ischitani dei casali vicini furono colti nel sonno. E molti furono uccisi. Ma a tanti fu risparmiata la vita. Furono tra i 2500 e i 4000 gli uomini e le donne che vennero fatti prigionieri e imbarcati sulle navi pirata per essere trasferiti come schiavi in Nord-Africa e a Costantinopoli. Di quel terribile episodio, restano gli scritti di diversi cronisti dell’epoca e dei resoconti in alcuni archivi parrocchiali isolani, che sono stati letti agli ospiti del Centro Ricerche d’Ambra da Cecilia Arturo. Mentre Caterina Mazzella ha riproposto l’accurata descrizione che d’Ascia ha fatto di quella notte tragica nella sua “Storia dell’isola d’Ischia”. Nei secoli, centinaia, migliaia di isolani furono sottratti alla loro terra e trasferiti con la forza sulla sponda opposta del Mediterraneo. Lì, una volta venduti come schiavi, venivano utilizzati come forza lavoro nei possedimenti dei signori locali. Ma i cristiani che fossero disposti ad abiurare la propria fede e a farsi musulmani, riacquistavano la loro libertà e potevano arrivare ad avere anche una vita agiata, a mettere su famiglia. D’altro canto, proprio per contrastare questo fenomeno, sorsero degli ordini religiosi che scelsero di dedicarsi come missione al riscatto dei prigionieri cristiani. Raccoglievano fondi in giro per l’Europa e li usavano per trattare il rilascio di gruppi di prigionieri. Che potevano a quel punto tornare a casa. Tra tante storie di ischitani rapiti, Nino d’Ambra ha scelto quella del foriano Pasquale Regine, che fu sequestrato con il figlio e altri foriani nel 1768. Maria D’Ascia ha letto le pagine de “Le ricordanze della mia vita” in cui Luigi Settembrini tratta di quell’episodio. Fu solo nel 1830, quando i francesi occuparono l’Algeria, che si concluse la lunghissima serie delle incursioni barbaresche sull’Insula Maior. Di quei secoli di timore e terrore sopravvivono le tante torri di avvistamento e di difesa costiera, quattordici delle quali ubicate solo in territorio foriano. E ancora detti popolari e testimonianze storiche. E i discendenti di tante generazioni di prigionieri ischitani che vivono sulle altre sponde del Mediterraneo. Il mare che ha sempre condizionato, nel bene e nel male, la storia del nostro “scoglio” e dei suoi abitanti. Fin dalle epoche più remote. (Isabella Marino,quotidiano “Il Golfo” del 3 gennaio 2006, pag. 22)
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Ultimo aggiornamento Giovedì 07 Maggio 2009 18:04 |