Meditazioni sul lavoro, Ripensare al ruolo del lavoro liberi dalle categorie ottocentesche |
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Scritto da Achille Della Ragione | |||
Mercoledì 12 Ottobre 2011 18:34 | |||
Meditazioni sul lavoro, Ripensare al ruolo del lavoro liberi dalle categorie ottocentesche In questo articolo propongo ai lettori alcune meditazioni sul tema del lavoro prese dal relativo capitolo del mio libro Stato, lavoro, denaro, benessere, felicità in uscita a novembre con Mondadori. Si tratta di spezzoni di articoli, relazioni, lettere al direttore e frammenti di conversazioni con esperti del settore come Bertinotti, Terni o Conway. Molti del lavoro hanno ancora una visione fuorviata dalle categorie ottocentesche (fig. 01), invece è necessario riformularne le coordinate, perché sul lavoro si gioca il futuro del mondo, il quale una volta si divideva semplicemente in ricchi e poveri (fig. 02), mentre oggi, ed in futuro il divario sarà sempre più accentuato, tra chi ha un lavoro e chi non lo ha. A metà del secolo scorso il capitalismo sembrava avesse risolto gran parte della questione sociale, perché lo sviluppo dell’economia non si era incamminato nello sfruttamento sistematico del fattore lavoro, una delle minacce paventate dal marxismo, bensì le retribuzioni crescevano parallelamente all’aumento della produttività, senza intaccare i profitti del capitale ed i lavoratori progressivamente miglioravano il loro livello di vita, integrandosi armonicamente nel tessuto sociale. Il lavoro precario è una maledizione (fig. 05) per i giovani, i quali non hanno più punti fermi che permettano di fare progetti per il futuro: formarsi una famiglia, fare dei figli, comprarsi una casa con un mutuo, godere un domani della pensione. In passato anche il Papa ha fatto sentire la sua autorevole voce sul problema, ma purtroppo, più che lamentarsi del fenomeno, non è riuscito ad avanzare alcuna proposta risolutiva. Molti credono che il lavoro precario sia una triste prerogativa dell’Italia, viceversa esso è una regola in tutti i paesi europei, per non parlare degli Stati Uniti, dove la estrema mobilità del lavoro è considerata la ricetta dello sviluppo economico. La scuola fino a quando il problema non avrà trovato una soluzione dovrà impegnarsi a fornire ai giovani una preparazione multidisciplinare, in previsione che, nel corso della vita, siano costretti più di una volta a cambiare completamente tipo di attività. Lo Stato ed i sindacati devono impegnarsi ad elaborare e rispettare una legislazione che preveda la possibilità reale di licenziamento per giusta causa, allo scopo di sfatare il pregiudizio(in gran parte vero) che un datore di lavoro che assuma un dipendente lo debba assumere a vita. Bisogna convincersi che una strenua difesa del lavoro comporta una palpabile penalizzazione per chi lo cerca. Gli economisti debbono spiegarci se la precarietà è una condizione favorevole dello sviluppo economico e prospettarci modelli alternativi, nei quali un maggiore rispetto dei diritti del lavoratore sia compatibile con un incremento della produzione. I politici debbono recepire la gravità del problema e, coraggiosamente, proporre soluzioni anche contro i poteri forti, spesso sopranazionali e sempre onnipotenti. Il loro compito è il più gravoso e necessita di un grosso appoggio per evitare il senso di solitudine delle scelte decisive, in mancanza delle quali non esisterà un futuro, non solo per i giovani ma per la nostra civiltà. Il progresso scientifico e l’automazione (fig. 06) negli ultimi anni hanno fatto sì che, con una quota minore di lavoro, si riesca a produrre una maggiore quantità di beni e servizi, una cosa certamente positiva che nel tempo potrà liberare l’uomo dalla maledizione biblica di essere costretto con gran sudore a procacciarsi il necessario per vivere. Paradigmatico è l’esempio di quanto produce un contadino americano ed uno africano: il primo grazie ai fertilizzanti, alla cospicua irrigazione ed all’uso di macchinari riesce a produrre quanto cento dei suoi colleghi africani, per cui, ipotizzando che in futuro anche loro potranno usufruire degli stessi accorgimenti, fra non molto il lavoro di uno solo potrà bastare a produrre il cibo per gli altri 99, i quali potranno anche non lavorare, se però colui che produce sia disposto a dividere con gli altri il frutto del suo lavoro. E qui nascono le difficoltà forse insormontabili per l’egoismo dell’uomo, probabilmente bisognerà creare una rotazione nel lavoro: un giorno ogni cento. Una prospettiva allettante che invita però alla meditazione sulla sua fattibilità, dopo che per anni abbiamo ascoltato l’utopico slogan “lavorare meno lavorare tutti”. In numerosi altri campi la riduzione del lavoro è stata massiccia, mentre il prodotto ha continuato ad aumentare senza sosta, riuscendo a soddisfare gli scriteriati bisogni crescenti di una civiltà dominata dall’imperativo categorico di consumare, consumare ed ancora consumare. Non è ipotesi fantascientifica immaginare un mondo nel quale il lavoro non sarà necessario (fig. 07) ed i beni ed i servizi necessari saranno realizzati dalle macchine e dai robot. Il problema drammatico sarà costituito dalla distribuzione dei prodotti, venuto meno anche l’uso del denaro o quanto meno del modo per procacciarselo al quale siamo abituati. Ed a complicare ulteriormente il quadro vi è il moloch della globalizzazione, che annulla le decisioni e le volontà non solo dei cittadini, ma degli stessi Stati, impotenti davanti al potere cieco delle multinazionali. Potremo in futuro, quanto prima, liberarci dal fardello del lavoro, ma dovremo affrontare e risolvere una serie di non facili problemi: distribuire equamente la ricchezza e creare una reale uguaglianza tra nazioni e cittadini. Un compito arduo ed affascinante che dovrà essere l’obiettivo delle nuove generazioni.
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