Italia: Giacomo Farelli opera completa
Il nuovo libro di Achille della Ragione inquadra la figura del Farelli nel panorama artistico napoletano della seconda metà del Seicento e ci permette di conoscere ed apprezzare un artista poco noto, attivo per oltre cinquanta anni, non solo nelle principali chiese napoletane, ma anche in Abruzzo ed in Toscana.
Discepolo di Andrea Vaccaro, egli subì il fascino di Guido Reni e del Domenichino, pur rimanendo nell’ambito di una tradizione figurativa di marca napoletana e si orienterà in seguito allo studio dei maestri cinquecenteschi, raggiungendo un espressionismo esasperato, soprattutto nei particolari anatomici, resi con particolare forza attraverso un costante esercizio del disegno. Il contatto col Giordano sarà quanto mai fecondo, perché il Farelli dall’illustre collega seppe cogliere gli aspetti innovativi, che trasferì nel suo stile personale. Il mercato antiquariale, oggi che sappiamo riconoscere meglio il suo stile, ci ha restituito numerosi quadri destinati al collezionismo privato, che vengono illustrati per la prima volta, incrementando il suo catalogo, che oramai può contare su molte decine di opere certe. “Fu il cavalier Farelli di bello aspetto, alto della persona e corpulento, a proporzione dell’altezza ed era quasi somigliante al cavalier calabrese e molte volte vedendolo da lontano mi sembrava veder fra Mattia, dapoichè era di volto gioviale, ma sodo come quello, laonde destava venerazione in chiunque lo vedeva o contrattava con lui.” Con queste parole il De Dominici ci descrive il Farelli, del quale viene proposta nella monografia l’unica rara immagine (01) che possediamo: un ritratto di ignoto pubblicato dal Ceci in un prezioso quanto introvabile libricino sulla pittura napoletana edito ai primi del Novecento. Prima di inquadrare la figura del pittore nel panorama artistico napoletano della seconda metà del secolo viene corretta la sua data di nascita, che ancora recenti ed autorevoli pubblicazioni, tra cui il catalogo della mostra Ritorno al Barocco, indicano, in accordo col referto dedominiciano, con il 1624, mentre un documento scoperto dal Delfino ci corregge la data, 1629 e non 1624, e forse anche il luogo di nascita (Roma o Napoli), mentre la data di morte rimane ancorata al 1706 e non il 1701, come indicato in molti testi, anzi sappiamo, da numerose polizze di pagamento del 1705, che fu operoso fino alla fine. Citato in quasi tutte le antiche guide, solo a metà del secolo scorso la critica ha cominciato ad indagare la sua produzione sia a Napoli che in Abruzzo, dove è stato attivo, in vari periodi, per molti anni. Dopo le prime aperture del Bologna nel 1958, la Gallichi Schwenn gli dedicò nel 1961 un importante articolo sulla rivista Partenope, seguirono poi i contributi della Borea, del Ferrari, in uno dei volumi della Storia di Napoli, della Barbone Pugliese, sulle pagine di Napoli nobilissima, del Pavone, che ha stilato la voce sul Dizionario biografico degli italiani e del Fiorillo, che curò le schede nel catalogo della mostra Civiltà del Seicento. L’attività abruzzese è stata investigata inizialmente dall’Ascione, sono seguiti quindi i contributi della Raucci, la quale ha dedicato la sua tesi di dottorato, purtroppo ancora inedita, all’autore e della Colasacco. Importante, per la rigogliosa produzione nelle chiese napoletane, è la rielaborazione della Napoli Sacra del Galante, operata da vari studiosi della sovrintendenza napoletana coordinati da Nicola Spinosa, come pure il commento del capitolo dedicatogli dal De Dominici ad opera del Ruotolo, nell’edizione commentata delle Vite curata dalla Scricchia Santoro e da Zezza. Nello stesso tempo sono venuti alla luce vari documenti di pagamento, che hanno meglio delineato i termini cronologici della sua attività, permettendo una più precisa ricostruzione degli influssi esercitati sul suo stile dall’ambiente artistico circostante. In particolare sono stati fondamentali la rilettura al 1693, sul finir della carriera, e non al 1663, della data apposta sugli affreschi pisani e la polizza che ha spostato al 1690 e non al 1673, indicato dal De Dominici, l’anno di esecuzione dei due dipinti conservati a Napoli nella chiesa di San Giuseppe a Chiaia. Il benemerito lavoro di Gerard Labrot, che ha pubblicato infiniti inventari, ci ha permesso di conoscere una serie di commissioni del Farelli per famiglie nobili napoletane, confermandoci la sua abilità non solo ad affresco o come esecutore di pale d’altare, ma anche come pittore da cavalletto. La bibliografia sul Farelli comprende 125 riferimenti, tra questi, segnalati con un asterisco, quelli fondamentali per la conoscenza dell’artista. Il Farelli, con Nicola Vaccaro, Francesco Di Maria ed Andrea Malinconico, costituì, entro determinati limiti, un’autentica alternativa allo strapotere di Luca Giordano lungo tutto l’arco della seconda metà del Seicento. Egli, secondo il De Dominici, giunse giovane a Napoli, ove fu «uno dei primi discepoli di Andrea Vaccaro e forse il migliore». Si dedicò con grande impegno alla componente disegnativa, cara al Di Maria, tanto da guadagnare il suo appoggio, oltre a quello del suo maestro, al fine di ottenere dai padri lucchesi di Santa Brigida la committenza per la pala dell’altare maggiore rappresentante la Visione della santa (02), in concorrenza con lo stesso Giordano, al quale venne affidato il San Nicola di Bari. Fu il primo scontro che fece del Farelli uno dei più strenui difensori di una linea di polarità anti barocca, nata allo scopo di arginare la corrente pittoricistica, che Luca si avviava a portare ai più alti trionfi. Poscia il Farelli si recò più volte in Abruzzo, ove realizzò pale d’altare ed affreschi, tra i quali quelli tanto lodati per la galleria del duca D’Atri, oggi perduti. L’assenza da Napoli dell’artista ebbe senza dubbio carattere di discontinuità, perché la sua prima opera in Abruzzo è il San Giovanni Evangelista (03) nella chiesa di Sulmona nel 1661, mentre recenti ricerche documentarie hanno stabilito con precisione i limiti temporali, tra l’ottobre del 1676 e l’aprile del 1683, del suo incarico di governatore, il quale gli procurò grande prestigio, mentre la croce di Cavaliere di Malta è il titolo del quale l’artista si fregia già nel 1670, quando fa precedere la sua firma, sotto la Sant’Anna (04) della chiesa del Purgatorio ad Arco, da un eloquente Eques. Il 1664 è l’anno di maggiore contatto ed emulazione con l’arte del Giordano, del quale utilizza la vivacità cromatica per la più nitida definizione delle figure, prima negli affreschi della sacrestia della cappella di San Gennaro nel Duomo, quindi nel 1671, quando completa le due tele del cappellone nella Pietà dei Turchini, la Nascita della Vergine e la Morte di Sant’Anna, le quali saranno osannate dal De Dominici: “Ha meritato le laudi non solo di tutti i nostri professori ma del medesimo Luca Giordano e di Francesco Solimena”. Nel 1672 completa la grande tela (05) per l’altare maggiore della chiesa della Redenzione dei Cattivi, nella congrega intitolata a Santa Maria della Mercede, mentre nel 1690 vanno collocati il Riposo nella Fuga in Egitto e la Morte di san Giuseppe nella chiesa di San Giuseppe a Chiaia. Dopo un lungo periodo nel quale la critica non è in grado di assegnare all’artista opere con certezza, giungiamo al 1693, quando il Farelli esegue i due grandi affreschi nel Palazzo comunale di Pisa: La Repubblica di Pisa sconfigge i Saraceni e conquista le isole Baleari (06) e La Repubblica di Pisa conquista la Sardegna nella battaglia conclusiva contro i Saraceni (07), una rarità iconografica nel catalogo dell’autore aduso a trattare prevalentemente soggetti sacri. In questi ultimi lavori, che a lungo la critica ha erroneamente collocato al 1663, l’influsso di un neo michelangiolismo nei nudi e nelle pose statuarie delle figure è lampante. Il Farelli muore il 26 giugno 1706 all’età di 77 anni e da allora riposa nella Terra Santa della Real Congregazione della Madonna dei Sette Dolori. Dante Caporali
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